di Piero Bellante
Anche l’Agenzia delle Dogane, come qualsiasi altro soggetto, è tenuta al risarcimento del danno. Un principio di diritto ovvio, la cui affermazione non farebbe notizia se non fosse che il risarcimento è stato disposto in favore di un coraggioso spedizioniere doganale che con caparbietà non ha esitato, pur nel dovuto rispetto delle forme e dei ruoli, a ricorrere al giudice per vedere riconosciuti i propri diritti. Il risarcimento è stato disposto dal TAR Lazio al termine di un estenuante contenzioso. I giudici, con sentenza n. 6794/17 pubblicata l’8.6.2017, hanno condannato l’Agenzia delle Dogane al pagamento in favore dello spedizioniere della ragguardevole somma di 20.000 euro, oltre al pagamento delle spese legali.
La vicenda inizia nel 2012 quando il doganalista, in possesso di autorizzazione AEO con doppia A e di autorizzazione all’esercizio delle procedure domiciliate, richiese all’Ufficio delle Dogane di Livorno di poter usufruire di queste procedure nella forma della rappresentanza diretta. Fino al 2015 l’Agenzia delle Dogane ha negato in generale questa possibilità, sulla base di un’errata interpretazione dell’art. 76 del Codice doganale comunitario Reg. Cee n. 2913/92 e degli artt. 253 e ss. DAC; quindi la risposta alla richiesta fu negativa. Il doganalista, convinto delle proprie ragioni anche in virtù delle modifiche che nel frattempo erano state apportate al DAC dal Reg. CEE n. 1192/08, si rivolse al TAR Toscana. I giudici applicarono il diritto comunitario e riconobbero la facoltà per “qualsiasi persona”, quindi anche per il rappresentante in dogana indipendentemente dalla forma in cui la rappresentanza venga esercitata, di richiedere l’autorizzazione all’esercizio delle procedure domiciliate, purché ovviamente sussistano tutti gli altri requisiti necessari. Questa facoltà prevista dal codice doganale non era in alcun modo comprimibile da parte degli Stati membri; tanto è vero che nel 2015, con circolare n. 1/D prot. 145541 del 19 gennaio, l’Agenzia delle Dogane finalmente si arrese all’evidenza, anche al fine di evitare l’imminente procedura di infrazione che stava per abbattersi per causa sua sulla Repubblica italiana.
La sentenza del Tar Toscana, emessa nell’aprile 2013, acquistò valore di giudicato, per mancata impugnazione da parte dell’Agenzia. Il doganalista, avendone assoluta necessità per le esigenze della propria clientela, richiese quindi l’estensione delle procedure domiciliate, nel frattempo autorizzate nella forma della rappresentanza diretta per effetto della sentenza del giudice, anche per l’esportazione di merci soggette ad accisa. Queste merci, com’è noto, sono sempre state escluse dalle procedure domiciliate (e, fino ad oggi, anche dalle nuove procedure per “luoghi autorizzati”), nel caso in cui il richiedente non sia anche titolare di deposito fiscale accise. Anche in questo caso la posizione dell’Agenzia delle Dogane è ostinatamente e palesemente contraria all’ordinamento doganale comunitario, che prevale su quello nazionale. L’Ufficio delle Dogane di Livorno quindi respinse la richiesta.
Convinto delle proprie ragioni, il doganalista (che non era titolare di deposito fiscale ma chiedeva “soltanto” di poter svolgere con serenità il proprio lavoro in rappresentanza diretta del depositario esportatore) si rivolse al TAR Lazio, competente per motivi procedurali, contestando il diniego di estensione delle procedure che era stato fermamente opposto dall’Ufficio delle Dogane di Livorno, basato anche sulla Determinazione del Direttore generale dell’Agenzia prot. n. 158326/RU del 14.10.2010 in materia di procedure semplificate. Tar Lazio, dopo un’ampia istruttoria, sconfessò una seconda volta l’operato dell’Ufficio delle Dogane di Livorno, riconoscendo come l’intera materia delle procedure domiciliate non poteva più ritenersi regolata dall’art. 12, del D.Lgs. 374/90, bensì dalle norme contenute nel Codice doganale comunitario e nelle Disposizioni di attuazione (art. 253, ss., DAC 1993), che non prevedevano alcuna limitazione merceologica, tanto meno vincolavano il richiedente ad essere titolare di deposito fiscale.
Il Consiglio di Stato, in sede di appello proposto dall’Ufficio, andò giù ancora più pesante affermando che limitare l’accesso alle procedure domiciliate (peraltro al rappresentante doganale di un soggetto esercente deposito fiscale accise), imponendo condizioni non previste dall’ordinamento comunitario, “si risolve in una illegittima implementazione e/o interpolazione della normativa comunitaria regolamentare, priva di base normativa”. Tradotto: ciò che pretende di fare l’Agenzia delle Dogane italiana non si può fare, perché la legge comunitaria non lo consente; punto e basta.
Risolto il problema? Naturalmente no: l’Ufficio delle Dogane di Livorno, nonostante le richieste rivoltegli, rimaneva inerte per circa sette mesi e non attuava la sentenza del Consiglio di Stato nonostante la sentenza contenesse l’ordine, per l’Agenzia delle Dogane, di eseguirla. Infine, l’Ufficio emanava un nuovo provvedimento che, ignorando l’ordine del Consiglio di Stato anzi senza fare alcun riferimento all’esistenza della sentenza, confermava al doganalista l’autorizzazione allo sdoganamento negli stessi “luoghi autorizzati” in prosecuzione della precedente autorizzazione alle procedure domiciliate, escludendo però nuovamente dall’autorizzazione la merce soggetta ad accisa, non essendo il ricorrente titolare di deposito fiscale accise. Il doganalista, quindi, per ottenere il riconoscimento dei propri diritti non aveva altra scelta che ricorrere nuovamente al Tar Lazio in sede di giudizio di ottemperanza. Questa volta però, poiché la mancata esecuzione del giudicato era stata nel frattempo fonte di notevoli danni patrimoniali, veniva richiesto anche il risarcimento del danno.
Tar Lazio si è pronunciato con la sentenza richiamata all’inizio, annullando il nuovo provvedimento emesso dell’Ufficio, perché smaccatamente elusivo del giudicato. I giudici hanno nuovamente imposto all’Agenzia delle Dogane l’attuazione, entro 30 giorni, della precedente sentenza favorevole al doganalista ed hanno riconosciuto fondata la pretesa risarcitoria avanzata dal ricorrente, perché c’è un limite a tutto. Il Tar ha anche nominato come Commissario ad acta il Capo del Dipartimento delle Entrate del Ministero delle Finanze, perché si sostituisca all’Ufficio delle Dogane di Livorno nell’emissione del giusto provvedimento, nel caso di ulteriore inadempimento da parte dell’Ufficio. La sentenza che ha concluso il giudizio di ottemperanza, peraltro questa volta con spese legali a carico dell’Agenzia, è divenuta definitiva perché non impugnata.
Vicenda finita? Naturalmente no: l’Ufficio delle Dogane di Livorno ha infatti emesso, nei 30 giorni assegnati dal Tar, un nuovo provvedimento apparentemente ossequioso dell’ordine del giudice, ma assoggettando di fatto il ricorrente alle stesse misure di sorveglianza tipicamente previste per i depositi fiscali accise (ancora!). Possiamo essere certi che il doganalista ricorrerà nuovamente contro questo ennesimo provvedimento elusivo del giudicato, che non ammette apposizione di condizioni, con probabili nuove richieste risarcitorie, a meno che il Commissario del MEF nominato dal giudice non intervenga nel frattempo a ristabilire il diritto in favore del ricorrente.
Forse è anche opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 28 della Costituzione italiana, “i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici”.
Le conclusioni che si possono trarre da questa vicenda, tuttavia, vanno oltre l’azione di un singolo soggetto ed il riconoscimento dei diritti che riuscirà ad ottenere: questa storia insegna che il prestigio, il rispetto (doverosamente reciproco tra professionista e Istituzioni), l’onorabilità, l’autorevolezza, il decoro e anche il futuro di una professione, come quella di Doganalista le cui nobili radici possono essere individuate nel R.D. 11 settembre 1862, n. 867, passano anche attraverso la capacità del professionista di ottenere il giusto riconoscimento del proprio ruolo, della propria competenza, dei propri diritti e di quelli del cliente rappresentato; sempre osservando le leggi e i regolamenti, ma con consapevolezza e rispetto per sé e per la professione che si svolge, con correttezza e senza alcun timore reverenziale. Costi quel che costi. A testa alta.
Avv. Piero Bellante – Verona