di Elena di Benedetto
Dicembre 2017. Una ditta italiana organizza una via aerea urgente Madrid – New York per l’invio di pezzi di ricambio (voce doganale 8431, origine non preferenziale tedesca), che si trovano in Spagna per motivi logistici. La ditta presenta la fattura allo spedizioniere spagnolo, le viene concesso un Número de Identificación Fiscal (NIF) d’ufficio dall’Agenzia Tributaria nazionale, numero da utilizzare esclusivamente per esportare merci di origine non spagnola, e l’operazione si conclude in pochi giorni.
Situazione (apparentemente) analoga, ma con merce “made in Spain” che l’operatore Italiano acquista in Spagna per successiva spedizione in Canada. In questo caso l’EORI Italiano legato al NIF d’ufficio non è più sufficiente. L’Agenzia Tributaria, per inserire l’azienda italiana nel campo 2 del DAU, chiede un vero e proprio NIF spagnolo, una posizione IVA nazionale per la quale i documenti da produrre sono più onerosi e le tempistiche più lunghe. All’azienda italiana viene spiegato, penalizzando un po’ la correttezza, che “se necesita un EORI español”.
Risposta simile in Francia per un’esportazione triangolare di plastiche (voce doganale 3926, origine non preferenziale francese) che l’azienda italiana acquista da un produttore di Strasburgo per successiva spedizione a Basilea. Il soggetto italiano dovrebbe essere l’esportatore nella bolla doganale: ha il contratto con il cliente svizzero ed il potere di disporre l’uscita dei beni dall’UE. Le plastiche partono direttamente da Strasburgo. La Douane Française, tuttavia, richiede una posizione IVA francese che viene definita, approssimando un po’ troppo, un “EORI français”.
L’Ungheria, in casi come il secondo spagnolo ed il francese, richiede un VPID (definito, non proprio esattamente, “Hungarian EORI”) e la Romania, allo stesso modo, esige una posizione IVA.
Ma cosa succede? Perché tante storie per comparire nel campo 2 del DAU? Le aziende non possono semplicemente esportare con il codice EORI dello stato membro in cui sono stabilite? Dopotutto è valido in tutta Europa….o no?
Certo, il codice EORI è rilasciato dallo stato membro di appartenenza, è unico e valido in tutto il territorio doganale. Questi requisiti sono chiaramente reperibili nella normativa doganale, nell’art. 9 Reg. UE 952/2013 (“gli operatori economici stabiliti nel territorio doganale dell’Unione si registrano presso le autorità doganali competenti per il luogo in cui sono stabiliti”), nel considerando 9 delle premesse al Reg. UE 2446/2015 (“al fine di disporre di un’identificazione unica degli operatori economici è opportuno chiarire che ciascun operatore economico deve registrarsi solo una volta con una serie di dati chiaramente definiti”) e nell’art. 1 punto 18 dello stesso Regolamento (l’EORI è un “codice di identificazione, unico nel territorio doganale dell’Unione, assegnato da un’autorità doganale a un operatore economico o a un’altra persona al fine di registrarli ai fini doganali”).
Tali disposizioni, tuttavia, da sole non bastano: il passaggio della linea di confine, che sia per un’immissione in libera pratica e consumo o per un’esportazione definitiva, come nei casi pratici sopra illustrati, ha implicazioni doganali e di fiscalità interna, ambiti che non presentano lo stesso grado di armonizzazione.
Se sotto il profilo doganale l’UE è perfetta (stessi dazi e stesse misura di politica commerciale verso l’esterno), dal punto di vista della fiscalità interna non si può certo dire lo stesso, basti pensare solo alle aliquote IVA che differiscono fra i vari stati membri.
Gli articoli riguardanti il codice EORI non conferiscono una discrezionalità agli stati membri (come avviene invece per rappresentanza doganale o sistema sanzionatorio), per quanto riguarda ulteriori identificazioni a livello nazionale. Gli stessi articoli non precludono agli stati membri l’introduzione di obblighi o formalità di registrazione per tutelare ambiti diversi da quello doganale e non completamente armonizzati e, del resto, non ci si può aspettare nulla di diverso dal CDU.
Le parti dedicate al codice EORI, infatti, disciplinano semplicemente l’aspetto doganale, l’identificazione degli operatori solo in Dogana, senza ingerenza alcuna per quanto riguarda le imposte indirette negli stati membri e l’eventuale identificazione degli operatori presso le Agenzie Fiscali e Tributarie dei 28 paesi.
Lo stesso documento del TAXUD (2008/1633 rev. 2) chiarisce che “Le disposizioni concernenti il codice EORI non limitano né compromettono i diritti e i doveri derivanti da normative che disciplinano gli eventuali obblighi di registrarsi per ottenere altri codici di identificazione che siano previsti dai singoli Stati membri in campi diversi da quello doganale, quali la fiscalità o il settore statistico”.
Nel caso n. 1 l’esportazione che la ditta italiana intende realizzare è una semplice esportazione doganale, non rilevante dal punto di vista della fiscalità indiretta in Spagna. Viene utilizzato l’EORI Italiano e non si richiede ulteriore identificazione dal punto di vista IVA in Spagna (solo una piccola formalità, trascurabile).
Se approfondiamo, invece, i casi n. 2 e 3 notiamo che l’esportazione non è solo doganale, ma è anche una cessione all’esportazione ai fini IVA, non rilevante in Italia bensì rispettivamente in Spagna (art. 21 Ley de IVA 37/1992) e in Francia (art. 262 Code Général des Impôts).
Tale osservazione è coerente con la previsione dell’art. 32.1 Direttiva IVA 2006/112/CE: “si considera come luogo della cessione, se il bene è spedito o trasportato dal fornitore, dall’acquirente o da un terzo, il luogo dove il bene si trova al momento iniziale della spedizione o del trasporto a destinazione dell’acquirente”.
L’impresa italiana pone, dunque, in essere nei due paesi un’attività non solo doganale ma anche fiscale e, per tale motivo, necessita di essere rintracciabile sia in Dogana (con codice EORI) sia presso l’Agenzia Tributaria nazionale (con posizione IVA).
È comprensibile che le Agenzie Tributarie nazionali desiderino monitorare da vicino questi movimenti. La mancanza di eventuali prove d’uscita dei beni dal territorio doganale dell’UE darebbe luogo, infatti, all’esigibilità dell’IVA a debito non fatturata (nei nostri casi spagnola o francese) e al recupero della stessa a cura delle Agenzie Tributarie nazionali. L’operatore che compare, con il proprio EORI, nel campo 2 della bolla doganale diventerebbe, quindi, anche un obbligato tributario per quanto riguarda l’IVA.
Cosa possono fare gli operatori per mettere assieme tutti i tasselli di questo puzzle?
Gli operatori dovrebbero in primo luogo prestare attenzione a considerare il codice EORI solo nel suo contesto doganale, senza attribuirgli un ruolo in ambiti che non gli competono. In questo senso, il sito web della Dogana tedesca, ad esempio, offre una breve panoramica di tutti i codici che non devono essere confusi con l’EORI (http://www.zoll.de/EN/Businesses/Movement-of-goods/Import/Duties-and-taxes/EORI-number/Other-numbers/other-numbers_node.html).
Le imprese, inoltre, non possono prescindere da una profonda analisi delle operazioni che realizzano.
Se l’esportazione doganale è anche una cessione all’esportazione rilevante ai fini IVA nel territorio di uno stato membro, allora gli operatori dovrebbero capire se è necessario aprire una posizione IVA nazionale ed eventualmente calcolarne il costo/opportunità. Ciascuno stato membro può, infatti, richiedere più o meno documenti, le tempistiche possono allungarsi e ci possono essere dei costi correlati al mantenimento della posizione IVA per un certo periodo di tempo. Qualora l’operazione risulti poco conveniente, gli operatori dovrebbero cercare di porre in essere strategie alternative per evitare di comparire nel campo 2 di una bolla doganale d’esportazione.
Ad esempio al posto di un acquisto EXW dal fornitore nazionale o di un’operazione triangolare, le imprese potrebbero negoziare una resa FCA con il fornitore di un altro stato membro, in modo tale da lasciare al soggetto nazionale l’esportazione…. tutto questo nell’attesa di una completa armonizzazione anche nell’ambito delle imposte indirette.