di Gianfranco Lorenzoni
Sarà un caso, ma che certe “stranezze doganali” succedano solo nella Regione Friuli-Venezia Giulia, mi fa molto impensierire. Poi vi dirò il perché.
Il fatto
Un collega doganalista flussa in AIDA una dichiarazione d’importazione (scusate se praticità non indico “immissione in libera pratica”), relativa ad una partita di merce dichiarata in una unica voce tariffaria. Valore totale della merce Euro 16.000,00 circa.
Il dazio preferenziale è zero e per l’IVA (22%) viene presentata una dichiarazione d’intento.
Il circuito di controllo esita la bolletta con un bel “CD” e, nel corso del controllo documentale, il funzionario incaricato rileva che una parte della merce è stata dichiarata correttamente mentre, per la parte rimanente, la classificazione è sbagliata e va corretta. Il funzionario redige un verbale sul quale evidenzia che dal controllo è emersa una difformità per cui si è reso necessario procedere alla rettifica della bolletta, ma che dal nuovo accertamento non risultano diritti dovuti.
Aggiunge, inoltre, che le difformità riscontrate sono accettate dal rappresentante della ditta e che con separato atto si provvederà alla contestazione formale delle violazioni, ai sensi dell’art. 303, 1° comma del D.P.R. n. 43/1973 (T.U.L.D.).
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Otto giorni dopo, la società importatrice riceve un plico raccomandato contenente l’atto di contestazione e irrogazione di sanzioni amministrative, all’interno del quale viene precisato che:
– “la variazione del primo singolo ha comportato una rideterminazione della quantità e del valore (differenze superiori al 5%) ed un rimborso di diritti;
– per il secondo singolo integralmente costituito si ha una differenza di qualità, quantità, valore e diritti.“
Per il primo singolo si configura la violazione di cui all’art. 303, 1° comma, punita con la sanzione pecuniaria minima di Euro 103,00 mentre, per il secondo singolo, si configura la violazione dell’art. 303, 3° comma, punita con la sanzione pecuniaria minima di Euro 15.000,00.
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L’importatore, avvalendosi dell’art. 17 bis del D. Lgs. 546/92, modificato dall’art. 9, comma 1, lettera l del D. Lgs. 156/2015, propone un ricorso/reclamo, all’interno del quale tiene ad evidenziare che la partita era stata regolarmente dichiarata in Dogana nella sua totalità sussistendo, al caso, una sola differenza di qualità, non certo anche quella di quantità e di valore.
Sulla base di tale assunto contesta quindi il ricorso al 3° comma dell’art. 303 del TULD proprio per il fatto che, malgrado la differenza di classifica, è lo stesso funzionario che nel proprio verbale attesta che non risultano dovuti ulteriori diritti.
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Novanta giorni dopo il deposito del ricorso/reclamo, la Direzione Interregionale rigetta l’istanza avallando l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 303 1° e 3° comma, con l’espresso richiamo ai contenuti della nota prot. n. 16407/R.U. del 09/02/2015 (a firma della dott.ssa Artibani), argomentando inoltre che la differenza di classifica consiste, nel caso di specie, non più in una violazione di natura formale, bensì di natura sostanziale in quanto è da considerarsi alla stregua di una omessa dichiarazione.
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Se così stanno le cose e se questi sono i principi sui quali si basa la dogana, vuol dire che ogniqualvolta sbagliamo di classificare una merce, potremmo trovarci di fronte ad una invalidazione ed annullamento d’ufficio della dichiarazione presentata e ad una omessa dichiarazione che farebbe scaturire delle sanzioni salatissime.
Ritorniamo all’inizio di questa storia e del perché la cosa mi fa impensierire.
La comunicazione di rigetto, oltre a richiamarsi all’art 199 delle DAC (Reg. CEE n. 2454/93), il quale prevede che: “la presentazione in un ufficio doganale di una dichiarazione firmata dal dichiarante o dal suo rappresentante è impegnativa, …. per quanto riguarda l’esattezza delle indicazioni riportate nelle dichiarazioni; l’autenticità dei documenti acclusi e l’osservanza di tutti gli obblighi inerenti al vincolo delle merci in causa al regime considerato”, precisa come l’art. 303 T.U.L.D., applicato alla fattispecie in trattazione, sia stato recentemente novellato, per cui si deve ritenere che il legislatore abbia considerato le suddette misure sanzionatorie adeguate ai principi comunitari.
Ciò pone una precisa responsabilità in capo al firmatario della dichiarazione (indipendentemente dal modo di rappresentanza utilizzato), che comunque potrà essere chiamato a rispondere in via solidale, se non dalla Dogana, sicuramente dalla società dalla quale ha ricevuto il mandato.
Pensate ora a ciò che può succedere se l’indirizzo della Direzione Interregionale del Friuli Venezia Giulia prende piede a livello nazionale.
Inoltre, se la dogana nei casi di questo genere, persiste nella sua convinzione di ritenere come omessa dichiarazione qualsiasi dichiarazione presentata che risulti essere errata nella sola classificazione, potremmo anche trovarci di fronte ad un funzionario zelante il quale, oltre alla sanzione salatissima, avrebbe anche la possibilità di denunciarci per tentato contrabbando.
Degli ottimi motivi per far si che gli importatori decidano di sbarcare le loro merci nel porto di Capodistria (che dista una quindicina di chilometri da Trieste) e fare lì le operazioni di sdoganamento, evitando problemi, sanzioni e denunce penali.
Ancora una volta, grazie Dogana italiana!
Dopo tutto questo, è lecito porsi questa domanda: ma che ci stiamo a fare in Europa?